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A REBOURS

di Alain Elkan


Verrebbe da chiedersi perché Barbara Nahmad senta l’esigenza di ritrarre i volti di alcuni grandi protagonisti del nostro recente passato, quando viviamo in un mondo di immagini fotografiche che ci hanno restituito i loro volti in molte situazioni diverse, a tal punto da renderli notissimi. Andy Warhol aveva già adottato il ritratto e così anche Francesco Clemente o Lucian Freud per citare solo alcuni artisti che si sono espressi nella seconda metà del novecento ritraendo famosi personaggi rifacendosi cosi alla più antica tradizione pittorica. Forse perché un vero artista sente il bisogno di confrontarsi con un modello, di darne la sua interpretazione personale e di lasciar capire il suo stile, adoperando un modello già visitato da altri per far sentire la sua diversità.
Si pensi per esempio ad un artista eclettico come Jean Cocteau che, amico di molti altri artisti e Narciso per carattere, fu ritratto nello spazio di pochi anni da Picasso, da Modiglioni e da Kisling e poi fotografato da Man Ray e da Brassai. Cocteau è sempre lo stesso e ognuno degli artisti che lo ha ritratto lo ha visto in un modo molto riconoscibile.
Così Barbara Nahmad si cimenta con se stessa, con la sua arte, con il suo stile molto riconoscibile, con i ritratti dove la bocca ha per lei un ruolo centrale per farci capire la personalità, il sorriso, l’esperienza di un personaggio famoso che tutti riconoscono, ma vedono ritratto con uno stile, un occhio, un tratto che è il suo.
E’ interessante vedere una serie di ritratti uno accanto all’altro che ci descrivono il volto e il tempo in cui hanno vissuto alcuni personaggi che Barbara non ha conosciuto, ma ha sentito il bisogno di raffigurare ispirandosi alle fotografie e ai ritratti fatti da altri artisti mescolandoli alla sua fantasia e al suo modo di interpretarli.
Non vi è perciò nulla di banale e di già visto nel lavoro di Barbara Nahmad ma una maniera di esprimersi originale e soggettiva che fa di Mao Tsetung o di Luigi Einaudi o di Henry Kissinger o di Giovanni Agnelli dei modelli.
C’è insomma il suo taglio, il suo tratto e il suo giudizio estetico e morale su questi personaggi che sono per lei materia come potrebbe esserlo il volto di un modello sconosciuto incontrato per strada.
E’ dunque la prova che in un mondo di immagini, di fotografie, di idoli, di icone viste e riviste non è il modello che conta, ma il talento e l’originalità con i quali l’artista ha saputo cimentarsi. Se poi i più grandi ritrattisti sono Rembrandt, Goya, Velazquez, Antonello da Messina o Picasso, questo lo raccontano gli storici dell’arte, ma ogni artista vive nella sua epoca e la sua è una testimonianza unica e irripetibile.
Un modello famosissimo o uno sconosciuto, in sintesi, sono la stessa cosa perché come è noto gli estremi si toccano.

 


BARBARA NAHMAD: IL RITRATTO INTERIORE

di Arturo Schwarz

La poetica sanscrita prescrive la necessità di identificarsi con il modello se si vuole rispecchiarlo fedelmente. E Plotino rimarcava che “l’occhio non vedrebbe mai il sole se non contenesse già il sole”. La capacità di Barbara Nahmad di percepire l’essenza dei suoi modelli, deriva dalla sua capacità di immedesimarsi con gli stessi. È normale che questa identificazione sia più facilmente raggiunta quando il modello appartiene al proprio sesso. Questo spiega perché i suoi ritratti femminili abbiano, una tale carica poetica ed emotiva.Tanto pressante è questa partecipazione, o meglio, complicità, che le permette di cogliere il paesaggio interiore del modello anche quando il soggetto è maschile.

Il teosofo del Seicento, Jacob Böhme, sosteneva che “Il mondo esterno visibile è un’immagine del mondo spirituale interiore”. I ritratti di Barbara Nahmad emanano una così intensa aura di verità  perché la nostra pittrice si concentra sul viso, sempre in primissimo piano – che meglio riflette la psicologia del personaggio – mentre il corpo, che poco rivela da questo punto di vista, è praticamente negato. La nostra pittrice riesce ad interpretare e capire il carattere di una persona, anche perché ne sa cogliere la luce degli occhi. Lo sguardo, lo sappiamo, è lo specchio più veritiero dell’anima. Inoltre, è pure inconfondibile il suo modo esemplare di tradurre, con la luce dei colori, i segni lasciati sul volto dalle ombre della vita.

È necessario ricordare anche che i ritratti di Barbara Nahmad sono l’esito d’una reazione creativa provocata dalla visione dei suoi personaggi e d’una riflessione (in entrambi i sensi, ottica e mentale) sugli stessi. Vi è, in questi ritratti, un particolare che rimanda alla riflessione duchampiana sul Readymade. I dipinti di Barbara non sono il frutto di una visione diretta del modello: questa visione è mediata, ed è di secondo grado. Infatti, Barbara non ritrae la persona stessa, ma la sua immagine Readymade che pesca nei rotocalchi. Nel suo caso il rapporto con i media è quindi fondamentale. Inoltre, dato che i suoi ritratti sono ripresi dalla carta stampata, vi è una mediazione che va oltre quella della fotografia – spesso grezza e  "rubata"– : ella ci proponepersonaggio, e la sua qualità umana, come il pubblico vi si identifica e lo riconosce tramite i media. In questo contesto il formato del quadro è importante, deve essere di grande dimensioni in modo da rimandare  al  manifesto inteso sia come luogo della memoria collettiva, sia della memoria personale: oggigiorno quale adolescente non ha appeso nella sua camera un poster del proprio idolo da adorare?

Con Barbara, la pittura è intesa  come  presenza,  soggetto e  attualità.  In grado di inglobare – senza rinunciare alla  tradizione pittorica, troppo spesso, oggi, completamente negletta –  i nuovi media tecnologici  che di fatto sembrano essere  la nuova  realtà. I suoi ritratti della persona  pubblica rimangano sempre un ritratto  dell’individuo in quanto persona: cioè, una rappresentazione che   cerca di  svelare l’umanità e la vacuità  di ciò che appare. Barbara mostra e  individua,  nella personalità  che questi  personaggi esprimono,  una delle ragioni del  loro  fascino imperituro e dell’immutata identificazione del pubblico con la   figura dell’eroe che finiscono per incarnare. Barbara  continua a raccogliere periodici come
Life, Epoca o Paris Match, perché sono le fonti delle sue immagini, filtrate dall’attualità giornalistica che le ha fissate per rispondere alle esigenze del mercato editoriale.  

I personaggi che Barbara sceglie per i suoi ritratti sono gli eroi positivi che la nostra epoca si merita. Questi portano il fardello del loro tempo e, a volte, il dramma del loro destino. Rappresentano, in qualche modo, una libertà di pensiero, una qualità morale e una modernità che riesce a sconfiggere il consumismo sfrenato della nostra società. Il greco
aletheia generalmente tradotto con “verità”, significa piuttosto “svelare” (a-letheia: togliere il velo). I ritratti della Nehmad sono veritieri anche perché riescono a svelare, insieme all’interiorità della persona, uno scorcio dell’eternità dell’essere.

 


FANTASTICA MOANA

di Maurizio Sciaccaluga

Edson Arantes do Nascimento, detto Pelè, per tutti O rei. Per i brasiliani è il Pan di Zucchero, è il Cristo benedicente, è il samba, è il carnevale di Rio; per gli italiani è la sconfitta più cocente, il matador, il ricordo inossidabile di quattro pappine e a casa. Il Santos –squadra-mito del calcio sudamericano quanto da noi il Grande Torino, il Genoa degli inglesi, la Pro Vercelli dell’anteguerra – seppur sopravviva dignitosamente in fondo in fondo è nata e morta con lui. Nel grande ritratto di Barbara Nahmad ride malizioso, con la consapevolezza di essere il più forte, l’invincibile, e in quel volto perennemente abbronzato su fondo viola c’è la felicità incontenibile di chi, nonostante le origini, è nato vincente. In un quadro ci sono il piacere assurdo del football, il gusto della rivalsa sociale, il divertimento dello spettacolo, lo sguardo di chi sa che, a ben guardare, la vita poi è soltanto un gioco. Viola come il colore vietato a teatro, il più odiato da chi fa spettacolo, dunque il più sentito, il più temuto, il più vissuto.
Ernesto Guevara, soprannominato Il guerrillero eroico, per tutti il Che. Per molti è lo spirito libero e sano del Sud America, è la rivoluzione fatta carne e ossa, è il Comandante, è il viaggio attraverso un continente a bordo di una Norton 500 battezzata ironicamente La poderosa. “Se avremo dei figli, speriamo siano come il Che”, ha detto qualcuno. Nei ritratti di Barbara Nahmad nasconde sempre un dubbio dietro le apparenti sicurezze, un brutto presentimento dietro le certezze della rivoluzione. In un quadro ci sono il bello, il forte e il giusto, c’è la voglia di sfidare il destino, una volontà più forte della tradizione, e quel volto barbuto su fondo rosso ricorda a tutti che, in fondo, vincere o perdere è solo un particolare, la stessa faccia della stessa medaglia. Rosso come il colore dei rossi, la bandiera rossa, la rivoluzione ro(u)ssa.
Moana Pozzi, per alcuni Fantastica Moana, per tutti Moana. La regina del porno made in Italy, ma anche la donna portata in passerella da uno stilista nel 1993, al grido di parole che suonavano più o meno “Le donne vogliono muoversi come Moana, non come una top model”. L’amor profano, senza dubbio, ma a suo modo sacro, per quella bellezza solare, quella convinzione, uel candore unico nella storia del cinema a luci rosse. Il suo aforisma più famoso? “Non ho mai provocato nessuno, faccio solo il mio lavoro”. Nel grande ritratto di Barbara Nahmad è sicura, bella, mai volgare. In un quadro c’è la storia di un volto nato in una famiglia cattolica e capace di andar contro tutto ciò che per lei era stato pianificato, preparato, progettato. Il volto è splendente, ridente, e il fondo rosso è la passione, il sangue che pulsa nelle vene. Rosso come la trasgressione, il fuoco, l’inferno.

Ritrarre la storia, immortalare i volti e le espressioni che l’hanno condizionata, indirizzata, segnata, stravolta. Catturare i connotati che hanno connotato – e si perdoni lo scontato gioco di parole – le vicende del recente passato. E, rinunciando agli sfondi, sostituendo il mondo reale di circostanza con campiture a smalto monocrome e distaccate – capaci, certo, a volte di elevare a potenza il significato di una vita e una missione, come il rosso del Che e di Mao, ma anche, indifferentemente, altre volte, di stridere violentemente col senso profondo di un esistenza, come il verde pisello di Kissinger o l’arancio di Indira Gandhi – costringere lo spettatore a ritrovare e rileggere il senso degli eventi solo e soltanto nelle rughe del viso, nei segni del corpo, nel sorriso forzato o spontaneo, nella smorfia contrita o simpatica. Questo fa Barbara Nahmad con il suo recentissimo ciclo di lavori, e questo fa una pittura in grado d’innescare in chi la guarda una serie di flash-back mnemonici atti a rivivere e reinterpretare avvenimenti e figure di qualche decennio fa, capace di trasformarsi quasi in una macchina della verità che può finalmente aiutare a capire chi diceva la verità e chi mentiva, chi era nel giusto e chi dalla parte sbagliata, chi doveva essere considerato un saggio e chi un pericolo.
Per le generazioni più recenti – per ventenni e poco più che trentenni cresciuti e pasciuti con il boom degli anni Ottanta, tra paninari e pentapartito, tra yuppies e prime telenovelas, all’ombra di quelle prime tivù private e primi PC che avrebbero poi cambiato modi e tempi di fruizione delle immagini, e con essi modi e tempi della nascita e della morte delle mitologie contemporanee – Marilyn Monroe, Ernesto ‘Che’ Guevara, Mao Tse Tung, Maria Callas, Grace Kelly, JFK, Golda Mair, Jacqueline Kennedy sono solo icone di rimando, simboli vissuti appena di riflesso dopo averli ereditati già usurati dai genitori o da qualche fratello maggiore. Manifesti e fotografie, certo, ma sbiaditi, appannati, mal messi a fuoco. Perfino Alberto Sordi e Moana Pozzi, Pelè e Gianni Agnelli – sopravvissuti più di altri al proprio mito, più vicini a queste giovani leve perché (ancora) attivi un po’ più in qua nel tempo – sono poco più che nomi a cui, solo con estrema difficoltà, s’associano storie e imprese, vittorie e sconfitte, eventi e corposi brandelli della nostra storia, mentre al loro posto imperano nipotini illegittimi e cloni neanche lontanamente paragonabili agli originali, dai Verdone ai Maradona, dalle Ursula Cavalcanti ai Cecchi Gori. Ma per quella generazione di ragazzi, mai cresciuti eppure oramai attempati, nati tra la metà degli anni Cinquanta e la fine del decennio seguente, tra l'ascesa al potere americano del clan irlandese e la deflorazione del suolo lunare, tra i trionfi commerciali della Cinquecento e i messaggi rivoluzionari di Carosello, quei nomi e quei volti sono la Storia con la S maiuscola, sono un momento cruciale della propria vita, rappresentano il sogno e il disincanto, la rabbia e la voglia di pace, la passione e la noia, il desiderio e l’amore, l’impegno e il disimpegno, la politica e il senso sociale provati in modo pieno e squassante forse per la primissima volta. E sono proprio costoro che, nei quadri della Nahmad, possono ritrovare il passato, possono analizzarsi e cercare di capirsi a distanza di anni, di decenni. Possono, in pratica, grazie a uno strano esercizio di fisiognomica, tentare di comprendere, motivare, giustificare – o magari, come spesso succede o è già successo, rinnegare – gli impulsi e le scelte di un tempo, i Credo e gli slogan della giovinezza. L’artista ferma quei volti – noti – in una posa nota, spara al massimo il primissimo piano grazie all’uso di un fondo di smalto acceso e abbagliante e fa in modo che nelle campiture di colore nero o grigio, nelle pennellate decise come nei dettagli rifiniti con attenzione si fermi qualcosa del carattere di quel personaggio, di quel periodo storico, dei significati e delle passioni che quel volto può riassumere ed esemplificare. Nei segni della pelle bianchi e color cenere, nelle rughe, nel taglio degli occhi e nel disegno delle labbra scorrono velocissimi i ricordi di chi ha vissuto quei nomi, di chi li ha praticati e frequentati (seppur in modo figurato) ai tempi della televisione in bianco e nero, quando c’erano solo due canali, le trasmissioni cominciavano alle 17.00 del pomeriggio con la tivù dei ragazzi e i telegiornali non erano strumento di convincimento politico ma appuntamento imprescindibile con il mondo. In pratica, Barbara Nahmad fissa un appuntamento paradossale con la storia, come in Zelig di Woody Allen (non a caso tra i suoi personaggi) o in Forrest Gump di Robert Zemeckis mette in piedi un incontro improbabile e impossibile tra gli spettatori e chi ha disegnato sopra le loro teste le vicende del mondo. Se Leonard Zelig si ritrova sul palco papale o in comizio accanto al fuhrer, se Forrest Gump mostra le chiappe al presidente degli Stati Uniti, chi si lascia andare di fronte ai quadri dell’artista potrebbe ritrovarsi a fare i conti col primo grande amore della sua vita (la bionda preferita dagli uomini), col campione a cui avrebbe voluto somigliare (O rei), con l’istinto rivoluzionario a lungo covato in grembo e mai seguito appieno (il guerrillero eroico).

 
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