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BARBARA NAHMAD
Guardare gli sguardi

di Vittoria Coen

Nel ritratto l’artista opera sempre sul soggetto, in qualunque caso, e, anche così facendo, dà un contributo alla conoscenza. Come potremmo, per esempio, non pensare che la corte di Filippo II di Spagna era profondamente corrotta, se guardiamo il celebre gruppo della Famiglia Reale dipinto da Goya, completo del famigerato ministro Godoy? La storia del ritratto è antica, ma è probabilmente dall’avvento della fotografia che la funzione del ritratto in quanto “genere” legato per la maggior parte a precise finalità, in un certo senso, decade. Il ritratto celebrativo, retorico, profondamente narrativo, cede il passo a significati molto più evocativi.
Con l’avvento delle Avanguardie Storiche (Cubismo, Futurismo, Surrealismo, per esempio) sono gli stili, le inclinazioni formali, le estetiche legate a quelle ricerche a determinare i “contorni” del ritratto. Si tende inevitabilmente ad allontanarsi sempre di più dal concetto di verosimiglianza per approdare ad un’indagine più profonda del soggetto, soprattutto con la nascita della psicoanalisi. Le estetiche che nascono a sostegno dell’immagine di quei regimi totalitari che si sviluppano in Europa e altrove recuperano il carattere retorico del ritratto con finalità strumentali legate all’esaltazione del potere, della forza, del coraggio. Mao, Stalin, Mussolini e Hitler diventano simboli che rimandano ancor oggi a momenti storici e vicende precisi.
Accanto alle ricerche più innovative e libere di un Picasso o di un Bacon, l’estetica della propaganda assume toni mistici e assolutizzanti. I due percorsi sono inevitabilmente separati e rimangono legati comunque ad un’unicità fino a quando la Pop Art inventa la serialità dell’immagine e, in particolare, del ritratto, che da mito si fa oggetto mercificato per poi assumere una sorta di extratemporalità ed extraterritorialità dell’essere diventato simbolo per tutti.
Barbara Nahmad non si sottrae ai suoi obblighi. Fa vivere i suoi personaggi come se fossero tutti vivi e presenti. Ma ne coglie la profondità a partire dalle pagine di un rotocalco.
C’è lo sguardo un po’ obliquo del vecchio crociato Giovanni Paolo II, la premonizione nello sguardo di Pier Paolo Pasolini dentro l’abisso, il dolore insanabile negli occhi di Primo Levi, la regina dello stile impeccabile Coco Chanel, gli occhi semichiusi del sempiterno Cuccia dal “lungo regno” di Piazza Affari, la solenne, imperscrutabile impassibilità di Mao, e poi un giovanissimo Elvis Presley, un Fellini proprio molto autentico con la sua spavalda immaginazione  ribelle, Moana Pozzi orgogliosa della sua scelta di vita, il rabbino Toaff nel sorriso così specialmente ironico, Sadat nella tensione di scelte politiche rischiose e definitive, Marilyn e il ritratto stesso dell’ansia. Olio e smalto giocano insieme alla costruzione di un sentimento che dallo sguardo, emerge in tutta la sua tragicità.
Queste persone vengono restituite a se stesse, occhi, bocche, emotività, espressività, caratteri e destini. Per farlo, l’artista ha scavato sotto la pelle, attraverso porte segrete, al di là del warholiano quarto d’ora di una celebrità appiattita dalla serialità, anestetizzata dal consueto maquillage del “caro estinto”.
Entrano, attraverso la porta dell’arte in un Olimpo che ci è, tutto sommato, familiare, quasi domestico.
Oggi si parla molto di miti, di icone: mi sembra una categoria molto affollata. Abbiamo adattato all’onda di una certa enfasi celebrativa il nostro linguaggio e i nostri giudizi e, paradossalmente, il linguaggio ancora prima dei giudizi. Qui con Barbara Nahmad, molto laicamente, c’è simpatia come condivisione filtrata attraverso immagini già visionate e revisionate, più come operazione mentale che come riflesso di emozioni vere e proprie. Anche perché molti di questi volti sono stati “mitizzati” dal cinema e dalla pubblicità che ne hanno perpetuato all’infinito le apparizioni. È poco probabile, infatti, che uno studente universitario, per esempio, a meno che non abbia fatto studi specifici, riconosca Sadat o Toaff, ma oggi mi verrebbe il dubbio anche su Moana Pozzi. Per non parlare di quelli che indossano la maglietta rossa con il volto di Che Guevara stampato senza sapere chi è.
Questo è l’innegabile risultato di una riflessione ben articolata, come è quella che fa Nahmad, un po’ come guardare il cielo, parlando a tutti o forse a pochi oggi, in cui il dimenticare, in nome di un andare avanti forsennato e ambiguamente propositivo, ha la meglio sui ricordi individuali e collettivi.
Quasi tutte queste stelle sono cadute, ognuna di esse ha avuto il suo transito. Ma qui esse rivivono, l’artista soffia via la polvere dai destini spesso tragici che le hanno travolte. Un atto di grande civiltà, che dà spazio, appunto, ad ognuno, col suo singolo sogno distintivo, perché di ognuno è stata fatta salva l’identità, e filtri e mediazioni non hanno affatto sbiadito la verità. Non c’è contraffazione, nemmeno quando certi tratti somatici appaiono enfatizzati: essi corrispondono sempre a quello che sappiamo. Fellini, Maria Callas, Guevara il Che, erano davvero così, e tutti loro sono parte del nostro passato in questo modo, lo nutrono in un certo senso e gli danno quel complesso e talvolta confuso significato che ci portiamo dentro, con o senza veli protettivi, paratie discrete, mediazioni estetico-psicologiche, senza le tante protesi possibili degli artifici della civiltà dell’immagine e dello spettacolo. Sotto il trucco dei volti femminili si immaginano ugualmente le crepe di una bellezza conclamata ma non necessariamente autentica. Le rughe della perplessità solcano il viso, lo sguardo abbassato sembra inseguire l’invisibile. C’era anche molta illusione, in quei “favolosi” Anni ’60.
Guardare questi volti, ecco. E non parliamo, questa volta, di immagini, di miti, di icone, parliamo di persone. Inchiodate e staccate insieme al loro supporto, nello ieri che rappresentano e nell’oggi in cui ci parlano, in una dimensione transitoria e in un’essenzialità perenne, raccontano, da subito perché questo mondo ha fretta, il tempo dell’umanità. Usurata, appassita la loro freschezza, come fu per le altre, più lontane nel tempo ma pure reali, protagoniste a loro modo, sono comunque la certezza di un legame che resta. Immagini, dunque. Le icone della tradizione bizantina erano inespressive. Il loro significato si leggeva piuttosto nel complesso dell’opera e nei dettagli, didascalie del senso che doveva essere comunicato. Avevano una funzione specifica in sostituzione dei libri, parlavano ai fedeli. Ma niente traspariva dai loro volti: la sacralità inespressiva. Era bandita l’emotività che appare, per esempio, così dolorosamente nell’arte sacra gotica. Il soggetto era simbolo oltre che persona, e su quest’identità si fondava la sua esistenza.
Poi c’è la lunga storia del ritratto.
Ora, nell’opera di Barbara Nahmad, questi rappresentanti del nostro tempo non hanno invece molte armi a disposizione per colpirci. La nostra immaginazione non è vistosamente sollecitata. Rinunciando saggiamente al piacere dell’ornamentazione essa non ha ceduto ad altre ormai consuete tentazioni, della proliferazione, per esempio. Ha evitato i facili effetti dei personalismi, non si abbandona ad una maniera espressionista che ci si potrebbe anche attendere, dato che il distacco dai soggetti non esclude, tutt’altro, una partecipazione esteriore nei valori di superficie.
Qualche cosa accade quando l’austerità cromatica così evidente nelle immagini non impedisce l’audacia cromatica del fondo così estraneo di per sé, forse fondata soprattutto sull’intento di rendere il fondo, appunto, garante, custode, protettore.
L’artista non gioca sull’istantanea, fra l’altro. Raramente, anzi, solo in qualche caso è espressa una vera sorpresa: non era necessario per catturare significati. Strappati alle pagine dei giornali, questi volti, queste espressioni, sono diventati materiale significativo per un’operazione di intenso arricchimento.
C’è, infatti, un modo particolare di collocarsi di fronte all’immagine che ha già subito l’influenza del mirino del fotografo, e non può più venire né idealizzata né traumatizzata. Quell’immagine esprime una realtà già codificata dal mezzo
meccanico in misura più o meno realistica, che si tratti di un’istantanea giornalistica o di una foto segnaletica, naturalmente tutt’altro che elaborata. Si tratta allora di costruire di nuovo l’immagine entrandoci dentro mediante un secondo processo, lavorare sul lavoro fatto dall’obiettivo fotografico senza però uscirne, senza cioè lasciar cadere quel tanto di inevitabilmente realistico che lo caratterizza, ma considerandolo esclusivamente strumentale. E, ovviamente, bisognerà evitare elementi narrativi, rinunciare a segnali troppo scoperti, al piacere ossessivo della precisione “fiamminga”, per esempio.
Ma anche una messa a fuoco, un’istanza ulteriore rispetto alle foto, per implacabile che sia, è, in definitiva, ancora una proposta. Quando Barbara Nahmad fa questo, pone domande, io credo, oltre lo stretto visibile. Un po’ come mi sembra di vedere nelle intenzioni di Chuck Close, in un rapporto che definirei dialettico fra l’aspetto puramente empirico, fisico, visivo, e una dimensione puramente allusiva.
E pensare che Barbara Nahmad arriva al ritratto dopo molteplici esperienze legate a tematiche molto diverse: l’osservazione dell’estetica legata al mondo dell’erotismo e del porno, gli interventi tradotti poi in una vera e propria
installazione con colonna sonora da thriller (Allarmi) sulle istantanee di battaglie urbane della nostra storia recente, Le tavole della protesta. Anche in questo caso l’artista parte dall’istantanea che focalizza l’azione, il frammento, come un contemporaneo reporter.
Storia e memoria si intrecciano in questi lavori, e forse parlare di prima e di dopo non è del tutto indicato.
Guardare gli sguardi è un po’ come guardare se stessi, e noi siamo anche la nostra storia.

 
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