text_canto - barbara nahmad

Vai ai contenuti

Menu principale:

text_canto

 
 
 
 
 
 
 
freccia
 


WORLD EXPERIENCE

di Luca Beatrice

Arriva l’avvenimento tanto desiderato, l’alba dei nostri giorni: è un venerdì. Il 14 maggio 1948. Tutte le radio del mondo trasmettono il discorso di David Ben Gurion (…) Il mondo, diviso tra l’incanto e l’angoscia, trattiene il respiro: il popolo ebraico, realizzando l’antico sogno, cambierà infine volto, se non destino?
Elie Wiesel, Tutti i fiumi vanno al mare. Memorie.
Sono passati più di sessant’anni dalla nascita dello Stato d’Israele. Era il 1948 quando il primo ministro Ben Gurion salutò le ultime truppe inglesi chiamate ad abbandonare la Terra Santa. L’ombra della guerra era appollaiata tra i confini appena assegnati. Di lì a poche ore il territorio designato dall’Onu è nel mirino del primo attacco. Viceversa, gli abitanti di quelle terre si troveranno a pagare un prezzo emozionale ed economico alto. Il resto lo conosciamo bene. Eppure, senza entrare nel merito di una querelle internazionale che si dibatte cercando ragioni, cause ed effetti di un conflitto irrisolto, ciò che colpisce, oggi come allora, è la vivacità socio-culturale che da sempre caratterizza questa terra. Nella neonata patria ebraica si riuniscono laici, agnostici, più e meno rigorosi, e le tre grandi religioni monoteiste vivono dello stesso sole. Nel 1948, i nuovi coloni che provengono dal Medio Oriente, dall’Europa, dall’America e dall’Oriente sono tutti mossi dal medesimo sentimento dello Judenstaat (l’istituzione dello Stato Ebraico). I cittadini di questo neo mondo sono gli architetti tedeschi, quelli del Bauhaus che porteranno il Modernismo a spopolare tra le vie di Tel Aviv con oltre quattromila edifici figli della scuola di Walter Gropius, e gli agricoltori dei kibbutz, come la tradizione racconta, tra manuali d’agraria e tomi di letteratura russa, Tolstoj in primis, sotto le tende e tra i piccoli letti dove la sera si legge la Bibbia insieme ai trattati di Karl Marx. Ci sono gli studenti americani e i bottegai ungheresi, colti docenti universitari insieme a maestranze e pastori. Appena assegnata ad Israele la sua bandiera e coniata la sua moneta, già si andava definendo il suo destino “ombelicale”: un crogiuolo di culture, di etnie e di religioni. Un destino forte dell’intuizione cosmopolita che le città hanno via via costruito su antiche fondamenta, cementificando le contraddizioni di lotte e peregrinazioni con la ferrea volontà di un’aggregazione per altri versi spontanea. Un destino in cui è iscritto un desiderio di appartenenza che ha assorbito e continua ad attingere dalla moltitudine di flussi che si rigettano e si mischiano al suo interno generando una materia viva e pulsante nella quale si annidano interferenze culturali uniche. Ho sentito dire che a Gerusalemme “ti puoi perdere pur sentendoti sempre a casa” (Nathan Englander), che Haifa è il regno delle convivenze possibili, che Tel Aviv detiene il primato di città più vivace di tutto il Mediterraneo. Ho poi letto un libro frutto della collaborazione di un autore israeliano e di uno palestinese: giovani e coraggiosi, ironici e antiretorici, Etgar Keret e Samir-El-Youssef - ebreo il primo, arabo il secondo - nella raccolta di storie Gaza Blues costruiscono un puzzle di situazioni con diversi punti di vista accomunati da un senso d’irrequietezza in cui vibrano le stesse tensioni irrisolte. La loro scrittura testimonia quello che la coralità di una mostra di artisti internazionali a Tel Aviv può significare: la possibilità di riunire, nella pagine di un libro nel loro caso, in pochi metri quadri nel nostro, mondi diametralmente opposti che convivono con rispetto. Atterrare con quattordici artisti – provenienti da Stati Uniti, Europa, Medio Oriente e Sud Est asiatico - in una mostra collettiva che trova nella parola “mondo” il suo comune denominatore, vuol dire tentare di raccontare l’equilibrio compositivo di esperienze eterogenee che dialogano con il rigore di un’orchestra. Non a caso Tel Aviv è la sede della nuova avventura della Galleria di Ermanno Tedeschi, non a caso una mostra che riassume la contaminazione di background tanto diversi da confondersi nell’unico tema attraversato a più livelli: un’intenzione curatoriale di coordinare la complessità dei linguaggi espressivi di ciascun artista cercando, proprio nelle interferenze, il valore dato per contrasto. Si tratta di una polifonia armonizzata dalla libertà affidata al singolo di parlare attraverso il suo medium comunicativo: dal chewingum ad origami di carta polverizzata d’oro; dall’olio usato nelle sue possibilità materiche, aggettante, quasi pungente, che sa diversamente fluidificarsi in figurazioni di volti noti o di metropolitane ambientazioni. Coloratissimi o monocromatici, pezzi unici o seriali, fredde fotografie o sculture composte, affidate alla tecnologia di piccoli schermi al plasma insieme all’arte vetraia, le antiche tecniche dell’affresco (occidentali) con l’uso delle carte di riso (orientali), lettere come linee e simboli come colori vicino a installazioni di cemento e chiodi, di prese e luci, stele di bronzo e corde annodate. Cito a proposito della coralità, un altro giovane della letteratura israeliana contemporanea: il controverso Eshkol Nevo. Non a caso anche lui appartenente a quella nuova scena che ha spostato i riflettori da Gerusalemme – con i nomi ormai noti di Grossman, Oz, Yehoshua – a Tel Aviv dove oggi è possibile esprimersi con una ricchezza di registri senza precedenti: altre generazioni, altre necessità. Insieme al già menzionato Keret c’è la scrittura surreale di Orly Castell-Bloom e quella controluce di Benny Barbash, per poi chiudere con la pluralità di voci di Nevo. Trovo divertente la prima ambientazione descritta in Nostalgia: il romanzo si apre con la vista di due colline, sulle quali stanno due villaggi, gemelli, uno di fronte all’altro. Uno ricco e l’altro povero, da una parte ebrei europei, ashkenazi, e dall’altra ebrei del Kurdistan. Tra i due? Un bel centro commerciale, unico incontro possibile tra i due luoghi. Il capitalismo come metafora: non importa da dove vieni, basta che paghi! Le bambine di Valerio Berruti, della serie I Wish I Was Special, impersonificano quella Simmetria dei desideri, che Israele contiene. L’affresco come espediente per un segno giovane, sicuro, senza incertezze. Enrico De Paris è il meccano dell’ironia, palombaro di ibridazioni tecniche che nella scienza trovano i soggetti per sculture eccentriche e polittici coloratissimi: simula complesse catene cromosomiche e si inventa microcosmi dove coabitano piccoli uomini e animali, tra vetri soffiati, schermi ad alta definizione e luci psichedeliche. Per Shay Frisch Peri il ready made di prese di corrente e lampadine, assemblate in precisi pattern, trasforma l’antico tema delle menorah (il candelabro a sette braccia, uno dei simboli chiave della religione ebraica) in installazioni dal retaggio novorealista, sempre corredate da precisi disegni strutturali realizzati ad Autocad. La pittura di Daniele Galliano ha trovato i suoi soggetti nei controversi anni Novanta, folle metropolitane da una parte e solitudini intimiste dall’altra, per sintetizzarsi oggi in costellazioni di presenze su sfondo nero, nuova formula per descrivere il singolo e la moltitudine. Al contrario, l’uso dell’olio per Robert Sagerman è la sintesi di Post Impressionismo europeo (Seurat) ed Action Painting americana (Pollock), fisico e materico, stratificato in orchestrazioni di toni pointilliste. Le rotte immaginarie di Riccardo Gusmaroli seguono le coordinate di barchette di carta – sorta di minuziosi origami – che segnano collegamenti possibili attorno a continenti in foglia d’oro: vortici come movimenti globali di cose e persone, carte geografiche frammentate, nomadismi e direzioni precise. Le installazioni di Sharon Pazner invece inseguono la contraddizione dei materiali utilizzati – chiodi e cemento – con i soggetti abbozzati in poetiche reiterazioni di voli d’uccelli e piccole case implose. Necessità di migrazione, nella parola ebraica "מעוף" , e al contempo di sedentarietà e appartenenza a una sola terra. Diversa la visione cinematografica delle inquadrature di David Kassman, abituato a viaggiare senza sosta e a fotografare ogni angolo del pianeta. Finestre sul mondo, che allo stampo documentaristico, oggettivo, aggiungono la giusta dose di introspezione virata in estetiche surreali. Di stampo socio-politico sono invece i grandi ritratti di Barbara Nahmad: il primo ministro israeliano Ben Gurion e al presidente egiziano Anwar as-Sadat, due icone erette a modelli universali per la loro capacità di sconvolgere l’ordine internazionale andando oltre agli argini imposti dai luoghi comuni. Più trascendentale è la logica simbolica di Tobia Ravà che si accosta alla figurazione di paesaggi e luoghi di culto, utilizzando formule combinatorie di numeri e lettere derivati dalle correnti mistiche dell’ebraismo (dalla kaballah al chassidismo). L’assemblaggio di colori e forme, date a pennello – rigorosamente con la tela appoggiata a terra – o per combustione di sottili fogli di carta poi incollati uno sull’altro in sequenze concentriche, è diversamente usato dalla coreana Minjung Kim nelle sue ipnotiche corolle policrome. Convivono lo studio della calligrafia orientale, la filosofia Tao - il pieno nel vuoto e la cosmologia - con le astrazioni stilistiche di stampo occidentale e le teorie evoluzionistiche dell’universo. Di origini ungheresi, Sam Havadtoy è cresciuto negli ambienti newyorkesi degli anni Ottanta, amico di Andy Warhol e di tutto il panorama artistico che imperversava nella metropoli: Keith Haring, Jasper Johns, Donald Beachler per citarne alcuni. La profonda ammirazione per l’artista minimalista Agnes Martin si rispecchia nella serialità ossessiva di ripetere, in combinazioni di oltre quaranta sfumature, strati di pittura fino a non lasciare tracce delle frasi scritte di pugno sulla tela. Di giacomettiana memoria sono le sculture affusolate di Alex Pinna, equilibrista del bronzo, della forma che si confonde con la sua ombra immaterica. Sempre una linea, che si attorciglia, si allunga, si tende verso l’infinito attorno a rappresentazioni simboliche dell’esistenza. A proposito di esistenza, si arriva con quel tono di sottile ironia che l’arte ha il privilegio di raggiungere senza ferire, a una domanda: Bisogna espiare ogni cosa? Sono anche nostre le colpe dei padri e dei loro antenati secondo un processo di eterni “vinti”? Maurizio Savini fa genuflettere il mondo su se stesso: è un immagine forte e sprezzante. Travestito da inchino, si piega il mappamondo in nome di un’espiata rinascita. Il sentimento di condivisione che lo Judenstaat ha inaugurato, è stato il motore per una contaminazione che ha scardinato gli argini istituzionali per costruire le sue nuovi leggi. Oggi se ne intravedono i frutti: multietnico e polifonico, l’universo che andiamo a descrivere “condivide lo stesso sole” di cui parlavamo all’inizio: come parte chiamata in causa da quest’avventura, adesso non mi resta che andare a scoprirlo questo utopico “mondo possibile” e portare nel cuore il sapore di un’esperienza che sarà unica.

 
Torna ai contenuti | Torna al menu
  • Genuine Ugg Boots Online
  • Ugg Australia Bailey Button Chestnut
  • Ugg Bling Boots Black
  • Baby Ugg Boots
  • Ugg Bags
  • Ugg Boots Outlet Canada
  • Ugg Classic Mini
  • How Much Do Ugg Boots Cost
  • Longchamp Luggage Outlet
  • Mens Ugg Winter Boots Sale
  • Sale On North Face Jackets
  • The North Face K Jacket
  • Womens The North Face Osito Jacket
  • The North Face Fleece
  • North Face Usa
  • The North Face Women S Thunder Jacket
  • North Face Windstopper Jacket
  • North Face Outlet Freeport Maine
  • Boys North Face Jackets
  • The North Face Jackets Women